Wednesday, December 07, 2005

La Stampa / 7 dicembre

«Scappavano, inseguiti dai manganelli»
Carlo Grande de La Stampa ha assistito al blitz della scorsa notte a Venaus


7/12/2005
di Carlo Grande


VENAUS. Sono arrivato a Venaus a mezzanotte, invitato da un amico che suona la fisarmonica, un quarantenne esile e pacifico. A un blocco la polizia mi ha indicato la strada. Ho chiesto se gli davano il cambio per la notte, hanno detto di sì.

Ho augurato loro buona nottata. Ho raggiunto l’amico al presidio Anti-Tav, superando a piedi altri agenti a un blocco di polizia, che mi hanno semplicemente ignorato. Ho varcato le «barricate» vicino alla strada, una rete sbilenca e qualche ramaglia, niente di inespugnabile, passando davanti alla baracca della Pro Loco. Sono salito nei prati 200 metri più in alto, sotto i piloni dell’autostrada, vicino a un’altra barriera simile. Siamo rimasti un paio d’ore vicino al fuoco a parlare, un bicchiere di vino, un po’ di musica, gli anziani cantavano canzoni degli alpini. Non ho sentito discorsi facinorosi, faceva freddo, la gente era tranquilla, c’erano una dozzina tra ragazzi, ragazze, sessanta-settantenni della vallata, una signora assessore ad Avigliana. Dall’altra parte un gruppetto di finanzieri parlottavano e si scaldavano a un fuoco. Alle 2,30 io e l’amico siamo scesi alla baracca della Pro Loco per sgranchirci e scaldarci.

Abbiamo attraversato i prati, c’erano una decina di tende, avrò visto in tutto una trentina di persone che dormivano, parlavano, suonavano la chitarra. Una donna aveva un collare medico. Non pareva gente facinorosa, nessuna agitazione, teste calde, tipi con l’aria e la grinta da antagonisti anarchici. Nella baracca (una dozzina di persone) è giunta voce che fuori c’erano movimenti, forse si preparavano a entrare. «Se caricano cosa facciamo?», ha detto uno. «Cosa vuoi fare? Chiamiamo gli altri dai paesi, ma a quest’ora siamo pochi. Se entrano ce ne andiamo» ha detto un altro. Poco dopo le tre siamo usciti sulla stradina e siamo andati verso la macchina a prendere una pila.

Siamo ripassati vicino ad alcuni agenti, ci siamo salutati, ci hanno detto ridendo «Ci avete circondati», «che fame» hanno aggiunto, «Volete un panino?» ho chiesto, «Sono a dieta», ha risposto con un mezzo sorriso. Siamo passati davanti a una ventina di altri agenti col passamontagna nero, ci hanno seguiti ostentatamente con lo sguardo, aria molto ma molto arrabbiata. Da una stradina fra i boschi all’improvviso è piombata una colonna di camionette e furgoni, una settantina, ci hanno superati hanno inchiodato davanti alla «barricata», sono scesi centinaia di agenti in tute antisommossa, scudi, manganelli, elmetti, spazzata la barricata sono entrati dimenando i manganelli. Mi sono avvicinato, in mezzo agli agenti che continuavano ad affluire e facevano «cordone», sono entrato nel presidio restando sulla stradina, fuori dalla mischia.

Nei prati sentivo urlare, vedevo gente correre, inseguita da agenti. Un ragazzo scendeva barcollando, urlava: «Bravi!, bella impresa! Non ho detto “ba” e mi avete dato un manganello in faccia». Qualcuno urlava: «Non picchiate la gente», un anziano ha detto «Sono sulla mia terra» (gli anti-Tav erano per lo più su terreni non espropriati, mi hanno detto), hanno manganellato anche lui. Non ho visto scontri, cioè colluttazioni - individuali o di gruppo - con agenti, nessuno che si ribellasse mentre gli mettevano le mani addosso.

Cercavano di proteggersi, di parare i colpi. Ho fatto due passi verso i prati, un agente si è staccato dal cordone di polizia: «Si allontani». Ho fatto alcuni metri più indietro: «Voglio vedere, sono un giornalista», «Non c’è niente da vedere» ha detto. «Ma stanno urlando», «Urlano sempre» ha risposto. Stavo per allontanarmi lungo la strada, lui mi ha raggiunto e afferrato per un braccio: «Adesso vieni qui», mi ha spinto oltre le linee, nella baracca piena di gente: tra loro quattro o cinque ragazzi seduti o sdraiati, sanguinanti, con labbra e fronti spaccate. «Dormivo, mi hanno picchiato» ha detto uno, gli ho chiesto il numero di telefono; la donna col collare era seduta, tremava e piangeva a dirotto, col ghiaccio in testa e sangue sulla fronte. «Una manganellata», ha detto. Le ho fatto coraggio, ho chiesto il suo telefono.

Qualcuno voleva stare davanti alla porta - c’era fumo, mancava l’aria, alcuni anziani stavano male, altri telefonavano alle ambulanze - li hanno spinti dentro con le brutte, anche dalla finestra. Tornata un po’ di calma sono uscito davanti al muro di scudi e manganelli: «Sono un giornalista», ho detto, sono rimasti impassibili. Da dentro non ho sentito insulti ma dei «Vergognatevi», «Potrebbero essere i vostri padri e i vostri nonni, le vostre figlie». C’erano donne-poliziotto in tenuta, lo sguardo fisso. Poi è arrivato il sindaco di Venaus con la fascia tricolore, ho ripetuto «Sono un giornalista», mostrato la tessera, «Quando arriva il comandante», hanno detto. Mezz’ora dopo è arrivato, il sindaco ha chiesto un’ambulanza e di farmi uscire.

Erano le 5. Ho salutato l’amico, gli ho detto di stare calmo (sarebbe rimasto lì fino alle sette con gli altri), sono tornato alla macchina fra centinaia di agenti, che mi hanno ignorato, superando con la tessera l’ultimo blocco. Intanto a pochi metri si ammassava la gente che arrivava da tutta la vallata. Ho visto moltissimi poliziotti tranquilli, corretti. Certo, non quelli che ho visto picchiare gente inerme. Sono sceso lungo l’autostrada alle sei. Nell’altra corsia luci blu di camionette e di ambulanze, che risalivano la valle.

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